La pittura di Roberta Serenari, così raffinata e mimetica, dove una sorta di iperrealismo magico si mescola a qualche opzione surrealista, mi ha sempre posto qualche problema, non solo estetico, che non esito a definire cruciale. Quando Sigmund Freud scrisse il suo saggio sulla Gradiva di Jensen, affidò alla letteratura, e possiamo ben dire all’arte in genere, una nuova funzione: non più soltanto quella di mostrare la dialettica della Storia, come voleva il pensiero marxista, o di rendere concreta la bellezza, come affermavano i cultori dell’arte per l’arte, ma di mutarsi in una sonda scientifica, un battiscafo metaforico per esplorare gli abissi dell’inconscio. L’opera d’arte, in parole povere, diventava un test virtuale per andare incontro a quegli esseri mitici, la definizione è dell’ultimo Freud, che sono gli istinti. Le bambine della Serenari, così ambigue e stupefatte, così menzognere e falsamente innocenti, sono in linea con la lezione di Freud, del suo bambino mostro polimorfo, il selvaggio cattivo dell’adulto civilizzato, e divergono così da quella riscoperta dell’infanzia come luogo edenico, che i pittori del secolo appena passato, si pensi a Paul Klee, avevano fantasticato. Si scontrano così, agli inizi del Novecento, due punti di vista, da un lato quello dell’infanzia come un incubatoio di perversioni, e dall’altro come il regno di un’età dell’oro dell’innocenza, e della creatività, e mentre l’Edipo di Freud uccide il padre, Felix, il figlio di Klee, porta il padre nella sua camera dei giochi ad additargli come esempio i propri disegni infantili. Le bambine della Serenari sono poste dalla pittrice ad un bivio, che sta tra l’aver veduto la scena primaria, il famoso sguardo dal buco della serratura nella camera dei genitori, e nell’essere complice della seduzione dell’adulto, ponendo le manine sul collo dell’uomo delle caramelle. La pittura della Serenari è ricca di implicazioni che vanno, per dir così, al di là delle opere in loro stesse, da farmi sembrare superfluo scrivere e lodare il suo magistero stilistico, e la sua straordinaria capacità, da grande fisionomista, tra Lavater e Darwin, di rendere nei volti, come in una allucinata trasparenza, le emozioni, o, se si preferisce, l’anima. Osservando i suoi quadri, ben poco importa chiedersi se una rappresentazione così conforme alla realtà sia moderna, post-moderna, o comunque futuribile: quello che conta è una sensazione di profondo coinvolgimento ed empatia. Le sue bambine sono concrete, viventi, hanno una violenta vocazione a entrare a far parte del nostro mondo: sono tra di noi, sono noi.
Giorgio Celli
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