Ci sono dei pittori che, dopo una peripezia estetica preliminare, trovano loro stessi, e si identificano con un segno, un geroglifico, una immagine, che li consegna alla memoria degli uomini e, più propriamente, alla storia della pittura. Mi vengono in mente i colli vertiginosi delle donne di Modigliani, oppure gli ossessivi, onnipresenti forchettoni di Capogrossi. Questi artisti che si sono per dir così, messi allo specchio del proprio inconscio, congelandone le pulsioni in una formula espressiva, cessano di essere sperimentali, di appartenere alla schiera dei vagabondi del pennello, che contiunuano imperterriti di cercare un proprio Graal estetico, spesso ineffabile, e diventano, i Modigliani e i Capogrossi, intendo, dei routiner della pittura, che lavorano all'interno del loro stile, ma che non lo mettono più in discussione, abitatori di una cittadella munita in forma di atelier, celebrando ogni giorno la liturgia del riconoscimento della propria identità artistica. Non mi sembra proprio che Paolo Artini faccia parte di questo gruppo di avventurieri a riposo, perchè, se anche lui ha inseguito attraverso gli anni un proprio geroglifico virtuale, non ha mai deciso di averlo trovato, e di avrlo fatto proprio. Benchè non sia una artista sperimentale nel senso dei pittori informali, o cinetici, oppure optical, del nostro tempo, resta, se si sa vedere al di là delle appraenze, uno sperimentatore irriducibile, ospite di un perpetuo laboratorio dell'arte. Se è vero che molti dei suoi quadri, si considerino i suoi ritratti di donna, sembrano riecheggiare lungamente gli uni negli altri, è necessario prestare maggiore attenzione, perchè l'evidenza è nel suo caso fuorviante.
Ogni ritratto rimanda a una qualche peripezia stilistica del tutto nuova, che gli è congeniale, o a delle citazioni perigliose, come quando allude a Modigliani, colli a parte, nell'ovale un po' anamorfico dei volti, o quando sembra ricordare Campigli, con un che di sapore arcaico, e vorrei dire etrusco. Si tratta, però, sempre di esche visive, le vorrei chiamar così, che si spengono sul nascere, spiazzate da una espressività del tutto personale, da un progetto pittorico che sta sospeso tra la geometria e il candore.
Paolo Artini passa con molta nonchalance, dalla tela alla pietra, dalla pietra al metallo delle coppe, ostensori dei sogni, dall'approccio figurativo, in cui regge lo specchio alla natura, a una serie di tormentati collages materici. Si tratta di una testimonianza nelle opere di quella sua inquietudine d'artista, di quel suo cercare, e cercarsi, che ho già sottolineato come suo peculiare stile di vita, che si traduce perpetuamente in arte. E' anche vero, però, che anche Paolo Artini, cercatore insonne di tesori di bellezza, ha scovato in sè stesso un archetipo, che l'accompagna, angelo ausiliatore, sempre meravigliosamente congruente, attraverso gli anni. Voglio chiamare in causa la sua colomba, un miraggio di luce, un bianco fantasma che appare, scompare e riappare ancora, reduce da un mitico diluvio, per portare con sè il suo messaggio di tenerezza e di pace.
Raramente sola, spessissimo in coppia, la colomba di Artini ha continuato, partendo quasi dagli inzi, ad abitare nei suoi quadri come una vogliera paradisiaca, spesso in una sommersa sintonia, con il volto di una medusa benigna della luna. Per sconfinare dall'universo della pittura in quello della poesia, con un'espressione che giudico di una disarmante semplicità, direi che artini è un poeta che dipinge invece che scrivere. Versifica in pittura, scrive versi col pennello, e la sua metrica non è fatta di accenti, ma di colori.
Ossevando le sue colombe che sembrano in procinto di tuffarsi nel pozzo deliquescente della luna, mi sono spesso venuti in mente i versi dell'ars poetica di Paul Verlaine: Della music, avant tout chose!, e me li sono ripetuti con la convinzione di chi compia una trasformazione alchemica, traducendo una immagine in una proposizione che ne sia fortemente analogica. Paolo Artini è un pittore cosmologico, che riscopre, in ogni suo quadro, l'universo di un volto, di un paesaggio, di una colomba. Cavagliere errante delle forme, va sempre dalla vita quotidiana a quel beato altrove dove abitano i sogni, suoi e di tutti noi.